Incontro Illustrativo: “DA SAMUELE BECKETT A STUART WEBB”
I quattro interventi da leggere per chi si fosse perso l’evento tenutosi a Roma in data 26 settembre 2019! Introduzione di Titti Calfapietro, e a seguire gli interventi di Lucrezia Maselli, Fabrizio Pulpo e Rita Della Lena, rispettivamente: avvocato, commercialista e mediatore familiare, Professionisti Collaborativi IICL
TITTI CALFAPIETRO
Benvenuti a questo incontro illustrativo della pratica collaborativa che noi dell’Istituto Italiano abbiamo voluto strutturare ricorrendo ad un “divertissement”, non già con l’intento di generare contrapposizioni bensì nel tentativo di indicare le coordinate di un viaggio, un viaggio che auspichiamo faccia la famiglia in crisi.
Una partenza ed un arrivo….. da Samuel Beckett, con il suo capolavoro letterario Waiting for Godot, a Stuart Webb, fondatore della pratica collaborativa.
“Aspettando Godot” è una tragicommedia costruita attorno alla condizione della attesa, ed anche l’opera si svolge entro un tempo congelato, una enorme pausa. Tutti conosciamo la trama dell’opera: due vagabondi, Vladimiro ed Estragone, attendono Godot……non sanno chi è, non lo hanno mai visto, non conoscono né il luogo né l’orario dell’appuntamento, ma lo aspettano……..nonostante la crescente stanchezza loro lo aspettano….non scelgono mai di andar via nonostante Godot non abbia loro promesso alcunché.
Ed è un attesa passiva, che non sa di speranza ma di consolazione. E’ molto interessante in proposito la riflessione dell’analista Thanopulos che andremo poi a riprendere nel corso di formazione. Egli sostiene che la speranza anima e orienta lo spazio dell’attesa, è la guida de desiderio, convive con la delusione e apprende dalla sofferenza. La speranza è vita. Il suo opposto è la consolazione che consiste nella chiusura dell’essere, nel negarsi all’esperienza. E’ morte. L’attesa di Vladimiro ed Estragone è una attesa di consolazione. Tutto è rimesso a Godot…e i due vagabondi non sono che dei POSTULANTI. Commuovente il passaggio dell’opera quando, dialogando, i due si interrogano:
E – Qual è la nostra parte in tutto questo?
V – La nostra parte? Quella del postulante.
E – A questo siamo ridotti? Non abbiamo più diritti? Li abbiamo perduti?
V – Li abbiamo buttati via.
Se sostituiamo i personaggi di Beckett con due genitori alle prese con l’evento separazione la rappresentazione non cambia. Si registra una staticità, una attesa passiva. Tutto è crollato; non c’è nulla in cui sperare. L’orfanità parziale dei nostri figli è un destino scontato. Anche se i genitori decidono di farsi la guerra vi è una attesa passiva poiché gli atteggiamenti di guerra non hanno lo sguardo verso il futuro, ma amplificano tutti gli aspetti deleteri del presente attraverso manifestazioni distruttive di se stessi, dell’altro e dei figli.
Attendiamo che arrivi un evento esterno che produca un cambiamento o riaggiusti le cose. Aspettiamo Godot….. ed in questa attesa deleghiamo un terzo a gestire i fili della nostra storia.
Ma perché è più conveniente attendere Godot e perché è forte la tentazione di delegare?
In questa risposta ci aiuta molto il pensiero dello psicologo William Bridges, autore fondamentale quando studiamo la pratica collaborativa e che di certo riprenderemo più volte nel corso base di formazione ed anche nei practice group.
Nel suo libro Transitions de vie o Transitions – Making Sense of Life’s Changes, potete leggerlo in francese o in inglese, non c’è una traduzione in italiano, Bridges afferma che ciò che ci spaventa non è il CAMBIAMENTO ma la TRANSIZIONE e cioè quel processo psicologico, più o meno lungo, di adattamento al cambiamento. Evitiamo la transizione perché questa fase ha a che fare con il “cosa siamo stati”; “cosa siamo ora” e “cosa vogliamo essere”. Delegare ci dà la illusione che possiamo evitare la transizione e che qualcuno ci renderà le cose più semplici.
Ma se ci pensiamo, quando deleghiamo – ad un giudice e ad un avvocato – noi deleghiamo il tempo del CAMBIAMENTO e non quello della TRANSIZIONE. Il diritto ed il processo stabilisce le regole del cambiamento: dove verranno collocati i figli, i tempi di frequentazione con l’altro genitore, l’assegno di mantenimento e così via …
La realtà è che il tempo della transizione non è delegabile e non è evitabile, perché è IL TEMPO DELLA NARRAZIONE; è lo SPAZIO DIALOGANTE che non trova posto nel processo ma da una altra parte e che reclama la presenza attiva dei due separandi. E per quanto la transizione sia complicata e dolorosa vi è un enorme BISOGNO di affrontarla.
E allora nessun Godot, nessuna delega…… i separandi hanno la necessità di operare SCELTE RESPONSABILI. Scelta e Responsabilità sono i due concetti guida della pratica collaborativa. Qualche riflessione su queste due parole.
SCELTA = La scelta è libertà. A tal proposito non so se vi è mai capitato di imbattervi su internet nella lezione dello psicologo americano Barry Schwarz dal titolo “Il paradosso della scelta”. Ad un certo punto Schwarz mostra una immagine: una boccia di vetro e due pesci, padre e figlio, che la ospitano. Il padre dice al figlio: “Figliolo, puoi diventare tutto ciò che vuoi”. Schwarz domanda all’uditorio: “Come si può, direte voi, in una boccia di vetro?”. E lui chiarisce evidenziando che se si manda in frantumi la boccia in modo che tutto sia possibile non si ottiene libertà ma paralisi perché l’aumento incontrollato delle opzioni genera insoddisfazione e diminuisce il benessere. Quindi tutti abbiamo bisogno di una sfera.
La pratica collaborativa è quella simbolica sfera.
RESPONSABILITA’ = Stuart Webb introduce e promuove un nuovo concetto di responsabilità, che possiamo ritrovare perfettamente nella definizione data dalla filosofa del diritto Maria Antonietta Foddai e che vi leggo:
“Essere responsabili significa essere pronti a far fronte, esserci, con tutta la nostra forza, la nostra capacità critica, la nostra buona volontà. La mia responsabilità, nel suo senso morale più profondo, significa io ci sarò; è legata alla mia persona e a un progetto di azione di cui io sono garante. Bisogna abbandonare il sistema verticistico che assegna la responsabilità, ma anche quello concettuale basato sulla assunzione per inventare quello della COSTRUZIONE della responsabilità.”
Cosa vuol dire questo in una separazione? Ci aiuta lo psicoanalista Renato Sigurtà. In una CTU riguardante un caso altamente conflittuale ebbe a dire: “dovremmo chiudere questi due genitori in una bella stanza, portare loro dei viveri e ogni genere di conforto e restituire loro la chiave solo quando e se si metteranno d’accordo sui bambini. Non è una cattiva idea; solo che lascerei loro la chiave”.
Parlando di Godot non posso non condividere con voi una riflessione sui professionisti della famiglia. Anche noi spesso attendiamo Godot. Spesso restiamo immobili nel nostro agire in maniera efficace perché preferiamo censurare una normativa troppo lacunosa, lamentarci di un legislatore poco attento e poco preparato, subire una pronuncia inadeguata… attendiamo la legge perfetta o dei clienti disciplinati e dialoganti.
Forse è il momento di diventare promotori di prassi virtuose; abbandonare l’idea che Godot, quale fattore di novità, sia al di fuori di noi.
Ma anche questa è una questione di scelta e di responsabilità; concetti che coloro che interverranno dopo di me sapranno meglio approfondire nel presentare le figure ed il ruolo dei vari professionisti nella squadra collaborativa.
Vi ringrazio per l’ascolto.
LUCREZIA MASELLI
Quante volte gli avvocati e le parti “aspettano Godot”; l’attesa che qualcun altro scelga e si prenda la responsabilità della scelta, la delega a terzi (GO = va DOT = fermo; è il punto nella lingua inglese).
Frustrazione dell’uomo nel suo tentativo fallimentare di muoversi, procedere e cambiare la sua posizione. Non sembra esistere possibilità di cambiamento (i due aspettano piuttosto che andare incontro a Godot), manca qualsiasi sviluppo. Non scelgono, e la scelta implica responsabilità: capire cosa dipende da noi e da noi soltanto e scegliere o non scegliere e agire di conseguenza accettando ogni conseguenza.
Perché ho parlato di sentire, di scelta, di responsabilità, nell’ambito di questo incontro?
Ho compiuto una scelta che è stata quella di occuparmi (fin dalla tesi di laurea) di diritto minorile e poi di famiglia, e ho sempre notato che in qualsiasi ambito difendessi il minore, era necessario fare in modo che le conseguenze delle problematiche degli adulti, della famiglia e dei conflitti distruttivi non ricadesse sui minori.
Mi sono chiesta come tutelare l’interesse dei figli e delle parti a non VIVERE nel conflitto, il diritto dei bambini a godere di quello che prima la Convenzione dei diritti dell’infanzia dell’adolescenza e, da ultimo, la Carta dei diritti dei figli dei genitori separati, riconosce loro.
L’avvocato che si occupa di diritto di famiglia ha una responsabilità rispetto ai figli a prescindere dal ruolo processuale. L’ordinanza 23 marzo 2016 del Tribunale di Milano (Dr. Buffone) sottolinea bene l’obbligo per l’avvocato del padre o della madre, nei procedimenti in cui sono coinvolti minori, di assumere un comportamento “protettivo” dei minori coinvolti: “…..i figli sono in posizione neutrale e gli avvocati, assumendo la difesa dei loro genitori, si impegnano a proteggerli e ad operare nel loro interesse … L’avvocato, pertanto, deve sempre anteporre l’interesse primario del minore e, in virtù di esso, arginare la micro-conflittualità genitoriale, scoraggiare litigi strumentali, e proteggere il bambino dalle conseguenze dannose della lite”.
La pratica collaborativa risponde a questo bisogno di ricollocazione dell’avvocato di diritto di famiglia che deve poter essere il partner giuridico e fattivo della crisi familiare.
ABRAHAM LINCOLN “Scoraggia la lite. Favorisci l’accordo ogni volta che puoi. Mostra come l’apparente vincitore sia spesso il reale sconfitto …. in onorari spese e perdite di tempo” e io aggiungerei: e in danni emotivi per i figli.
Ho compiuto la scelta di diventare professionista collaborativo proprio perché la pratica collaborativa sposta l’atteggiamento dell’avvocato e degli altri professionisti coinvolti e restituisce le responsabilità della scelta ai coniugi (con conseguente annullamento della delega a terzi) da una logica avversariale ad una logica collaborativa.
La scelta dell’avvocato è anche quella di abdicare al potere (decido io su tutto), può essere considerata da alcuni colleghi come una perdita di prestigio, perché ci piace vantarci del risultato in una logica avversariale (sono stato tanto bravo che ho distrutto l’avversario).
L’avvocato collaborativo è in una posizione paritaria con le parti che hanno un ruolo più attivo, le accompagna, si siede insieme a loro, è in squadra con loro e con gli altri professionisti coinvolti (l’avvocato avversariale lavora in solitudine e senza coinvolgere nelle scelte le parti); sceglie l’accordo e tifa perché venga raggiunto. Tanto che, nel caso in cui non si giunga all’accordo e ad una soluzione consensuale, quegli avvocati che hanno seguito le parti durante il processo collaborativo, non assisteranno le parti in giudizio (clausola di esclusione), rinunciando al mandato.
Non ci sono né vincitori né vinti, la logica è WIN WIN – Ci saranno accordi condivisi, con reciproca soddisfazione – attenzione al risultato complessivo senza concentrarsi sul minimo risultato che limita il processo creativo di soluzione dei problemi.
RESPONSABILITA’ DELLE PARTI che non delegheranno ad un giudice la decisione sulla loro vita e su quella dei loro figli ma compiranno una scelta consapevole che porta ad accordi duraturi e alla soluzione più adatta a risolvere tutti gli aspetti del conflitto.
RESPONSABILITA’ DELL’AVVOCATO che è responsabile della procedura (chi frequenterà il corso avrà modo di verificare quanto sia importante avere una comunicazione efficace, predisporre l’ambiente, seguire le fasi, essere garanti delle regole della procedura). L’avvocato ha la responsabilità che tutti i passaggi vengano rispettati, tanto che l’accordo collaborativo è molto dettagliato (anche più di quello che in seguito è stato previsto per la negoziazione)… lo vedremo nel corso della formazione.
E’ questa la sfida della pratica collaborativa che diventa scelta (sfida) per i professionisti e per le parti che non rimangono fermi ad aspettare le decisioni degli altri ma “si avviano incontro a Godot”.
FABRIZIO PULPO
Quando mi proposero di partecipare ad un corso sul diritto collaborativo in cui si esponevano i dettagli di un percorso extra giudiziario utile a risolvere le problematiche della separazione ed in cui i vari professionisti e cioè avvocati, commercialisti e altri si impegnavano a non litigare e a non far litigare i coniugi, credevo che si trattasse di una battuta.
La circostanza che veramente si potesse non litigare ma collaborare, dopo anni di attività in cui non avevo fatto altro che difendermi e attaccare in una sorta di guerra a tutto campo, cartacea prima e telematica poi, mi incuriosiva molto e mi faceva intravedere quell’esigenza che avevo sempre avuto di occuparmi di qualcosa che assomigliasse, sia pure lontanamente, a quello che avevo sognato e immaginato di fare come professionista.
Del resto, forse come molti e come tutti dovrebbero fare, avevo letto il codice deontologico prima di iniziare l’attività e mi interessava entrare in un mondo in cui invece di battaglie agguerrite nell’interesse dei clienti, come ormai sempre avveniva, avrei potuto condividere le mie attività e le mie conoscenze con i colleghi e, addirittura, gli avvocati.
Non so perché non sono stato da sempre un commercialista collaborativo. Forse è stata colpa mia, forse è stata colpa dei tempi, forse sono stati gli strumenti informatici o la necessità di dover avere molto più di quello di cui abbiamo bisogno che mi ha visto (e credo ci veda) protagonisti di una battaglia e non di una vita professionale che dovrebbe in realtà essere vissuta a tutela degli interessi generali o comunque di tutti.
In tutti questi anni di libera professione mi sono sempre sentito come un pesce (viene facile fare battute sul cognome, me le hanno sempre fatte sin da quando ero bambino), ma in realtà la professione non mi ha fatto “ridere” mi ha fatto invece mostrare i denti di un pesce aggressivo, i denti di uno “squalo” che mi hanno sempre costretto ad essere per tutelare gli interessi del cliente.
Così mi è piaciuta l’idea di diventare “delfino”.
Si, è questo il paragone che più di tutti mi consente di inquadrare sinteticamente e forse pragmaticamente ciò che meglio definisce il commercialista collaborativo: lo squalo che diventa delfino e che invece di mordere e difendere gli interessi del cliente (ed anche i suoi…) si trasforma in un delfino che nuota insieme agli altri senza timore di essere “morso”.
Una vera e propria trasformazione? Una cambio d’abito? No. E’ una scelta: la giusta allocazione nell’alveo deontologico, in quello che il ruolo (ed il codice deontologico) impone ai professionisti.
Infatti il nostro codice deontologico addirittura nel preambolo sancisce che “Il dottore commercialista deve comportarsi con buona fede, correttezza, lealtà e sincerità” e che quello degli avvocati statuisce i doveri di lealtà e correttezza “L’avvocato deve svolgere la propria attività professionale con lealtà e correttezza”.
Lealtà, sincerità, correttezza. Parole semplici ma anche molto importanti e che, forse soprattutto ultimamente, sembrano veramente lontane, quasi incredibili.
Mi sono spesso chiesto, quando ho avuto incontri professionali per i più svariati motivi con i colleghi e gli avvocati: ma il codice l’abbiamo letto? E soprattutto: quando tuteliamo gli interessi di qualche cliente durante la separazione siamo sicuri di avere sotto mano il codice deontologico? Spesso credo proprio di no e ciò accomuna anche gli altri professionisti.
Ricordo le operazioni peritali quale c.t.u. o c.t.p. dove ho assistito allo stravolgimento delle regole non solo deontologiche ma anche di buon senso che dovrebbero contraddistinguere tutti. Ho pensato, a volte durante gli incontri più “agguerriti”, che se si fosse calato un extraterrestre in quella riunione al posto di uno dei presenti in fondo non sarebbe cambiato molto. A volte pensavo che alle riunioni ognuno parlasse una propria lingua senza che nessuno dei presenti avesse il traduttore.
Il più delle volte il professionista, vuoi anche per rispondere alla logica che ne deve “giustificare” e quindi (ma erroneamente) remunerare l’intervento, è aggressivo e con ciò non voglio solo rammentare quella che è l’aggressività caratteriale, ma anche tecnica.
Il commercialista, infatti, soprattutto il più qualificato, può trasformarsi in una macchina da guerra distruttiva. Ciò accade anche perché il più delle volte i professionisti, siano essi avvocati o commercialisti, sono quasi “costretti” a suggerire soluzioni per giustificare l’intervento e quindi la parcella e non lavorano con la dovuta serenità.
Si è spesso costretti a “suggerire” soluzioni che tutelano solo una parte. Nelle vicende che riguardano le separazioni ci viene sempre più spesso chiesto quale è il modo migliore per “occultare” le disponibilità del coniuge per evitare che siano “aggredite” dall’altro. Ed in questo meccanismo ognuno gioca un ruolo di assistenza che tanto più è lesivo della integrità della famiglia ormai divisa quanto più sono alte le competenze e le conoscenze del professionista.
Nascondere, non dire, sentire e non riferire per acquisire informazioni, svolgere indagini patrimoniali e non anche al limite del lecito. Questo si fa in ipotesi conflittuale.
Il percorso che porta a formare un commercialista collaborativo non fa altro che responsabilizzare il professionista per consentirgli di applicare sul campo la regola della lealtà e della correttezza ed evita che tutti i professionisti coinvolti siano costretti ad imbracciare le armi, indossare il giubbotto antiproiettile e ripararsi dietro la barricata pronti a fare fuoco.
Il percorso collaborativo gli fa indossare piuttosto il basco blu dell’ONU con la scritta OBSERVER prima e SUGGESTION (suggerimento) o PROPOSAL (proposta) poi, senza il timore che ciò che si va a dire o proporre possa essere strumentalizzato, utilizzato contro ecc.
Si, credo che l’esempio renda bene il senso del percorso collaborativo.
Sembra un’inezia ma in realtà il processo collaborativo consente di andare avanti facendo un passo indietro, consente di ottenere risultati convenienti senza compromettere i rapporti.
Tante volte, ancor prima di diventare un commercialista “collaborativo” ho dovuto rinunciare a dare suggerimenti ed evadere richieste fra le più varie.
Quello che caratterizza il rapporto tra due coniugi quando essi si vogliono o sono costretti a separarsi credo sia simile a quello che a volte contraddistingue gli estremisti delle lotte religiose: l’intransigenza.
E questa intransigenza è ancor più importante e rilevante con riferimento agli aspetti economici che, ovviamente, caratterizzano ogni separazione.
Di qui l’importanza che ha un commercialista nel percorso collaborativo.
Il commercialista darà suggerimenti e consigli che non terranno conto dell’interesse di un singolo cliente ma di entrambi e, viepiù, dei figli. Per il commercialista già questo è un bel risultato perché gli consente di lavorare per tutti e con una modalità molto più serena.
Baudelaire dice che il lavoro rende prosperi i giorni ed il vino rende felici le domeniche. Per me il diritto collaborativo è quel vino che rende felici i giorni di lavoro.
RITA DELLA LENA
Sono un Mediatore Familiare professionista e avvocato. Ho svolto questa seconda attività professionale, in realtà, per ben 37 anni con continuità, mentre ho incontrato la mediazione familiare solo nel 2006, dopo l’introduzione della L.54 che per la prima volta ha menzionato in un testo normativo questo Istituto. Mi sono molto appassionata ed alla fine ho deciso di dedicarmi quasi totalmente alla sua diffusione e pratica.
Sono qui, in qualità di coach in area relazionale per darvi alcuni spunti – che spero possano incuriosirvi, come è stato per me, ed indurvi ad approfondire- sull’utilità dell’intervento di questo professionista nella pratica collaborativa.
Chi è il coach: la definizione più completa che racchiude più figure professionali è quella di esperto delle relazioni (psicologo/psicoterapeuta, esperto dell’età evolutiva, mediatore familiare) questo perché, a seconda delle fattispecie, può essere più idonea una o altra competenza.
Due parole sulla figura professionale del MF perché va sgombrato il campo da molti equivoci purtroppo ancora presenti.
Il MF professionista, oltre ad aver conseguito l’idoneità alla pratica dopo 320 h di formazione, è iscritto ad una delle associazioni che vigilano sull’osservanza della norma UNI del 2016 che ha definito -oltre alla formazione di base- anche quella permanente, la supervisione e il codice deontologico, nonché ha reso obbligatoria l’assicurazione per la responsabilità professionale. E’ in primo luogo un facilitatore della comunicazione.
Tiene in mano la bussola, aiuta a focalizzare l’attenzione sul fatto che non ci sono solo le persone in conflitto ma anche il loro legame e la storia di esso che richiede di essere accolta e ripresa, per quanto possibile, nelle sue potenzialità generative.
Cosa fa il coach: anzitutto non svolge alcun ruolo terapeutico, ma quello di accompagnatore/traghettatore tra un passato da rielaborare (non cancellare) e i bisogni attuali, sta con la coppia, ma anche con i loro legali, in quel difficile tempo di transizione.
Svolge un intervento che non si sovrappone a quella dei legali ma, anzi, favorisce il loro lavoro. La considerazione di base è che il cambiamento non si verifica con l’esclusiva variabile cognitiva.
Aiuta a sentire più che comprendere.
Come opera: promuove l’ascolto attivoche favorisce l’empatia efacilita la creazione di un clima di fiducia, nella coppia e in tutta la squadra .
Chi vive un conflitto si sente debole, solo, disconnesso dagli altri. Spesso questa solitudine è sentita non solo dalle parti ma anche dai loro legali. Il coach aiuta a creare la “squadra”; si vince o si perde tutti insieme.
Ha una funzione di terzietà: un terzo che non giudica, in grado di stare con l’uno e con l’altro; più che neutrale, equi-vicino.
Attesa: Beckett ha realizzato due atti nei quali l’attesa si perpetua e potrebbe durare all’infinito.
Dante, invece, pone gli Ignavi (coloro che non hanno operato scelte in vita) nel III canto dell’Inferno e li condanna a correre dietro un vessillo bianco, senza stemmi né ideali, una bandiera senza senso, che gira su se stessa. Un correre a vuoto: quanta fatica per non andare da nessuna parte.
Responsabilità: significadare risposta, quindi prendere una posizione: decidere.
L’osservazione di stati d’animo ed atteggiamenti, estremamente variegati, mi ha riportato alla mente due termini della lingua greca.
Krisis (crisi) significa letteralmente “separare” e, in senso figurato, “decidere” , quindi:
– una separazione (taglio da situazione precedente)
– una decisione (scelta della nuova strada da intraprendere)
Il conflitto non è omogeneo. Dal puro contenimento si evolve verso la differenziazione qualitativa e normalizzante. La consapevolezza sugli effetti che il conflitto può avere crea responsabilità Il conflitto da distruttivo può diventare costruttivo.
Airesis (eresia) significa presa, scelta, inclinazione, proposta. Anche un percorso fuori dagli schemi, una negazione dei dogmi (non a caso la usiamo in tema di religioni).
Pratichiamo e rendiamo virale l’eresia del coraggio, dell’impegno e della responsabilità.
Il dolore non può essere ignorato ma si può -si deve- attraversare. Pensiamo alla nota metafora della barca dentro la tempesta: non possiamo sperare che la vita ci ponga al riparo dalla tempesta e questa, se non può essere aggirata, va necessariamente subita; è decisamente più forte e potente della piccola barca. Quindi la via non è allenarsi a combattere la tempesta ma a risalire sulla barca rovesciata dalla tempesta.
Allenamento è una parola chiave. Allenarsi a vedere con un’ottica diversa. Per bilanciare l’immagine, riconosco un po’ inquietante, degli ignavi, vorrei chiudere con una battuta tra Snoopy e Charlie Brown perché riassume perfettamente il concetto che c’è sempre un’interpretazione ulteriore oltre a quella che ci pare più ovvia ed andare “oltre” può darci molte informazioni utili:
“ Qual è il doppio di sei?” “ Siamo”.